La libertà d’espressione artistica è fondamentale per diverse ragioni: gli artisti sono spesso i primi a captare e denunciare problemi sociali che altri non vedono o non osano affrontare. Quando Billie Holiday cantava “Strange Fruit” nel 1939, portava all’attenzione pubblica il dramma dei linciaggi razzisti in un’epoca in cui i media mainstream evitavano l’argomento.
L’arte può comunicare verità scomode in modi che raggiungono il cuore delle persone.
Victor Jara in Cile o Miriam Makeba in Sudafrica hanno dato voce alle sofferenze dei loro popoli in modi che i semplici discorsi politici non potevano fare.
La musica in particolare ha il potere di unire le persone attorno a una causa e creare empatia.
Censurare gli artisti è spesso il primo passo verso regimi autoritari. Non a caso una delle prime azioni dei nazisti fu bandire quella che chiamavano “arte degenerata”.
Quando un governo inizia a decidere quali forme di espressione artistica sono accettabili, sta già limitando il pensiero critico e il dissenso. Inoltre, gli artisti hanno un ruolo chiave nel preservare la memoria storica attraverso le loro opere. Le canzoni di protesta degli anni ’60 o il rap degli anni ’80 ci aiutano a capire quei periodi dal punto di vista di chi li ha vissuti.
Pensiamo a Bob Marley – che ha dato voce alla lotta per i diritti civili e l’emancipazione del popolo giamaicano con canzoni come “Redemption Song” e “War”, al già citato Victor Jara – cantautore cileno, simbolo della resistenza contro la dittatura di Pinochet (le sue canzoni denunciavano le ingiustizie sociali fino al suo assassinio nel 1973), a Joan Baez – figura chiave del movimento per i diritti civili americani degli anni ’60 che ha usato la sua voce per promuovere il pacifismo e la giustizia sociale.
O ancora, Pete Seeger – che ha dedicato tutta la sua carriera all’attivismo politico attraverso il folk, scrivendo inni come “We Shall Overcome” fino a John Lennon – che dopo i Beatles, ha creato potenti messaggi pacifisti con “Give Peace a Chance” e “Imagine”, ed ancora Nina Simone – con le sue canzoni come “Mississippi Goddam” sono diventate emblemi del movimento per i diritti civili degli afroamericani.
Pensiamo a Fela Kuti – pioniere dell’afrobeat che ha usato la sua musica per criticare il governo nigeriano e il colonialismo, a Woody Guthrie – (le sue canzoni folk raccontavano le lotte dei lavoratori e delle classi popolari durante la Grande Depressione).
In Italia, Fabrizio De André, Francesco Guccini, Giorgio Gaber e poi di colpo ti ritrovi in un paese ingessato e con tutti “yes men” sul palco.
Silenziare gli artisti significa quindi non solo limitare la libertà d’espressione individuale, ma impoverire il dibattito pubblico e la capacità della società di riflettere su se stessa.
Scusate signori, ma io spengo tutto ed accendo il cervello.